Mickey 17 - La satira di Bong Joon-ho
Dopo Parasite, Bong Joon-ho ci regala una pellicola basata sul romanzo Mickey7 di Edward Ashton. Il film, satirico e politico, vuole raccontare un futuro che, infondo, non è poi così lontano.
RECENSIONE
Marta Cervellino
5/6/20253 min read


In un futuro distopico ma non così lontano, la Terra è sovraffollata e vittima dei cambiamenti climatici, che la stanno rendendo inospitale. Così, Mickey Barnes (Robert Pattinson), per fuggire ad un debito economico con uno dei peggiori (o migliori) strozzini della città, decide di partire per una missione di colonizzazione sul gelido pianeta Niflheim, idealizzata e finanziata dal politico Kenneth Marshall (Mark Ruffalo).
Essendo un “Sacrificabile”, il suo compito è quello di affrontare le missioni più pericolose, sapendo che, alla sua morte, il suo corpo verrà rigenerato con i ricordi intatti. Un giorno, però, succede qualcosa di inaspettato. Durante una missione Mickey 17 viene dato per spacciato, e mentre il protagonista si prepara a morire viene salvato da animali abitanti del luogo. In modo del tutto straordinario, Mickey 17 torna alla base, ma il processo di rigenerazione è stato ormai ultimato, dando vita a Mickey 18.
A causa di questo errore, i due dovranno trovare il modo di coesistere e di non destare alcun sospetto sull’esistenza dei Multipli; l’alternativa sarebbe la soppressione di entrambi. Ci riusciranno?
Il doppio
È interessante focalizzarsi sul tema del doppio, incarnato dal personaggio di Robert Pattinson. Bong Joon-ho ha creato una dinamica alla Dottor Jeckyll e Mr. Hyde. Infatti, mentre Mickey 17 è una persona passiva, servile, di un’ingenuità che rasenta la stupidità, Mickey 18 è, invece, estremamente brutale, aggressivo, istintivo. Due persone completamente diverse, ma con gli stessi ricordi. Come è possibile che tutte le copie di Mickey fossero simili a loro stesse, con qualche leggera differenza, mentre Mickey 18 è così differente?
L’esistenza di un “altro te” che cerca vendetta dopo tutti i soprusi che “voi” avete dovuto soffrire è quanto di più concreto possa esistere. Mickey 18 è la vera essenza di Mickey 17. Tutto ciò che lui avrebbe voluto fare o dire trova corpo nel suo doppio, che non avrebbe mai dovuto prendere vita, eppure è lì a cercare giustizia, a bramare sangue, a ristabilire l’ordine delle cose.
Mickey 18 è Mickey. Non Mickey 17, non 15, non 2, solo Mickey.
La satira di Bong Joon-ho
Mickey 17 è un film distopico, eppure non è così difficile poter credere ad un futuro che stia andando in quella direzione. Il personaggio di Mark Ruffalo è deliberatamente ispirato a Donald Trump e Elon Musk il quale ha, di fatto, messo in vendita dei biglietti per una futura missione spaziale. Bong Joon-ho scrive un personaggio estremamente sopra le righe, privo di qualsiasi intelligenza e ragionamento critico, un pupazzetto guidato dalla perfidia della moglie Ylfa (Toni Collette), e da una setta che ha finanziato il progetto e messo lui a capo di tutto. La realizzazione di Kenneth Marshall è macchiettistica, tirato al limite, tanto da rendere comica la sua presenza.
Anche il tema della morte viene affrontato con una leggerezza incredibile ma necessaria. La pellicola di Bong Joon-ho ha tentato di parlare della complessità della morte privandola della componente terrorizzante, domandandosi: cosa accadrebbe se si potesse non morire mai? Lo stesso Mickey 17, quando gli viene chiesto cosa si prova a morire ancora e ancora, risponde che non si è mai troppo pronti ad accettare quel destino.
Il continuo vederlo, da parte dello spettatore, sullo schermo, innesca un processo di normalizzazione. Riesce a non preoccuparsi troppo, perché è perfettamente consapevole che il protagonista verrà ristampato nuovamente. In tutto questo, non ci si angoscia più della sua incolumità, ma si attende quasi impazientemente la prossima morte, chiedendosi fino a che punto di potrà arrivare o quando finirà.
In tutto questo, sorge una domanda spontanea: fino a che punto si può considerare questo una fortuna? Perché dovremmo essere contenti di non morire mai? La morte dà un senso alle cose, le valorizza, pone fine ad una condizione di sofferenza. Certo, a sapere che la propria morte verrà rimandata crea un’illusione di controllo, credendo di potersi preparare a dovere.
La pellicola di Bong Joon-ho pone dei quesiti etici e morali ma senza fare la predica a nessuno, senza dire cosa sia giusto o sbagliato, ma solleva domande e crea uno scambio di opinioni, favorisce una discussione. Nient’altro d’aggiungere se non un grande “chapeau” al regista che, dopo Parasite, conferma nuovamente la sua maestria nel girare film complessi, ma riflessivi.