The Brutalist - A volte il genio non basta

Brady Corbet ci regala un film fatto di attese lunghe e fotografie mozzafiato. The Brutalist, il nuovo film con Adrien Brody e candidato agli Oscar è lungo quasi quattro ore, e racconta una storia che parla di umanità e fragilità.

RECENSIONE

Marta Cervellino

2/7/20253 min read

László Tóth (Adrien Brody) è un architetto ungherese ebreo sopravvissuto all’Olocausto. Nel 1947 emigra negli Stati Uniti in cerca di una nuova vita, mentre sua moglie Erzsébet (Felicity Jones) è ancora trattenuta in un campo profughi sovietico. Negli Stati Uniti, László lotta per affermarsi come architetto fino a quando un ricco industriale, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), gli offre un’opportunità che cambia la sua carriera: costruire un monumentale centro ricreativo polivalente. L’opera doveva essere costruita lì, nella tenuta, e doveva essere fatta in onore della madre di Van Buren senza badare a spese. Tuttavia, questa collaborazione, sebbene in principio fosse costituita da rispetto e stima reciproca, successivamente porta a numerosi conflitti tra l’integrità artistica di László e le aspettative del suo mecenate, mettendo a dura prova i suoi valori e le sue relazioni personali.

Il brutalismo

L’elemento sempre presente di questo film è il brutalismo, sia come corrente architettonica, sia come scelta stilistica della narrazione. Esattamente come la sua controparte artistica, la pellicola sceglie di raccontare la storia di László con una rudezza inspiegabile, mettendone a nudo le vulnerabilità e le contraddizioni del suo essere. László è un immigrato, fuggito alla guerra e ai campi di sterminio, dotato di un genio che non si era mai visto in America e per questo osannato, usato e poi buttato via.

Il film, nel tentativo di raccontare anche quale sia la vita di chi migra in America, porta in campo due realtà completamente differenti. La prima è quella del cugino di László, Attila, che lo accoglie benevolmente, dandogli un lavoro e un tetto sopra la testa. Da un primo scambio di battute, Attila rivela al cugino di aver modificato il cognome, per renderlo più americano, di essersi convertito alla religione della moglie e di aver armonizzato anche il suo nome. Insomma, Attila ha cambiato completamente vita, adattandosi perfettamente alle richieste americane.

László, dal canto suo, non vuole rinunciare a niente di quello che gli appartiene. Anche quando impara la lingua locale, non vuole mai abbandonare il suo accento. Accetta che questa scelta possa portare a della conseguenze, ma non se ne cura; a lui importa solo di lavorare duro e potersi ricongiungere a sua moglie e a sua nipote. È proprio questa sua scelta di non conformarsi, di non diventare un pezzo di un ingranaggio, a renderlo agli occhi di Harrison Lee Van Buren una sorta di “animale esotico”. Harrison è un uomo facoltoso, attratto dal genio e dalle cose rare. László rappresenta entrambe le cose, per tale ragione desidera averlo intorno, come se potesse, attraverso questa vicinanza, splendere di luce riflessa.

La dinamica di potere

Il rapporto tra László e Harrison è fondamentale per le dinamiche del film, perché tra la prima parte e la seconda cambia in maniera evidente. Dapprima Harrison si dimostra benevolo e accogliente (forse troppo), offrendogli un’opportunità lavorativa senza precedenti, accogliendolo in casa e facendolo entrare in contatto con un facoltoso avvocato che lo aiuta a far migrare la moglie e la nipote in America. Tra i due sembra esserci una grande complicità intellettiva e umana.

Nella seconda parte, invece, questo rapporto cambia. Tra i due cominciano ad esserci attriti e nervosismi, László è impaziente e deve destreggiarsi tra i problemi logistici del lavoro, rendendo sempre più evidente il suo nervosismo e assumendo un atteggiamento di spocchia e supponenza che il suo ruolo di architetto rivoluzionario gli concede, mentre Harrison è spesso di malumore e scatta per un nonnulla. Si è rotto qualcosa, non si rispettano più. Harrison, questa cosa, non può accettarla. È lui il capo, è lui il finanziatore del progetto. Senza di lui, László non è nessuno.

Ecco che quindi, a Carrara, viaggio fatto per scegliere il marmo dell’altare che andrà all’interno del complesso, Harrison abusa di László. Lo stupro non aveva niente di sessuale, era un modo per Harrison di ristabilire il controllo, il suo potere, su László. Era una modalità per dirgli “tu, senza di me, non sei nessuno, non sei niente, io con te faccio ciò che voglio perché sei di mia proprietà, mi devi tutto, ed io ora te lo ricordo”. Inutile dire che questo episodio cambia visceralmente László, portandolo a fare scelte che condurranno lo spettatore al finale del film.

L’evento, crudo e brutale, è una metafora dell’essere un emigrato in America. Cosa vuol dire vivere in America? Vuol dire cambiare il nome, il cognome, la lingua, la religione, nascondere l’accento, essere visto come un animale esotico, un qualcosa di particolare da tenere in vetrina e da poter esporre, se sei un genio. Vuol dire essere perennemente grato a chi ti ha dato una mano, essere sempre asservito a chi ti ha concesso il grande lusso di entrare in un paese nuovo. Vuol dire doversi adattare per conformarsi ed essere assimilato, ma anche non doverti mai dimenticare da dove vieni e della grazia che ti è stata fatta. Vuol dire non dover mai, e poi mai, mordere la mano di chi ti nutre. László questa mano l’ha morsa, e come un cane ingrato è stato abbattuto.

The Brutalist, con il suo modo brutale, privo di fronzoli, grezzo e rude vuole regalare uno spaccato di realtà, difficile da mandare giù, ma che ti incanta con la sua fotografia e la sua musica, inebriante come la promessa di una vita nuova.